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Non solo calcio

… un calcio alle canzoni.

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Canzoni e calcio, due forme di intrattenimento popolare tra le più diffuse.

Quante strizzatine d’occhio tra di loro, quanti incontri spesso vincenti, quanta poesia miscelata a note che hanno dato vita a melodie indimenticabili.

Di sicuro tra i più prolifici tifocantanti figura Antonello Venditti che nel 1983, per celebrare il secondo scudetto giallorosso, scrisse e interpretò quel Grazie Roma che divenne l’inno ufficiale della squadra, contendendo alla precedente “Roma Roma Roma, core de sta città …” il cuore dei tifosi romanisti. Entrambe bellissime e morbide melodie dagli arrangiamenti un po’ ruffiani, tese a favorire la coralità da stadio.

Meno specifica nei riferimenti ma assai generosa nei richiami pallonari è un’ altra canzone di Antonello quando in Ci vorrebbe un amico, afferma: “… vivere con te è stata una partita, il gioco è stato duro comunque sia finita”, mentre in Notte prima degli esami  esplode la tristezza per l’amara avventura della Roma in coppa dei campioni, ricordando con il cuore infranto il risultato negativo maturato ai rigori contro il Liverpool “ … notte di sogni, di coppe, di campioni”, diventa il ritornello di un lamento messo in musica.

Il cantautore romano l’introspezione la riserva, però, ripercorrendo la sua adolescenza sulle note, ma ancor più sulle parole, di Giulio Cesare, entrando alla Siviersson, cioè a gamba tesa, nel tentativo di mettere a confronto due generazioni: “era l’anno dei mondiali quelli del ’66 la regina d’Inghilterra era Pelè”, quando appena qualche strofa dopo chiude il concetto ricorrendo a una metafora per esprimere in musica l’idea del tempo che passa : “era l’anno dei mondiali quelli dell’ 86, Paolo Rossi era un ragazzo come noi”.

Inutile poi ricordare la stima e l’affetto che l’autore di Roma capoccia nutriva per l’allenatore boemo quando questi allenò la squadra capitolina, al punto di dedicargli un pezzo dal titolo mutuato direttamente dal romanzo di Italo Svevo, la coscienza di Zeno, con il più appropriato, calcisticamente parlando, La coscienza di Zeman.

Giusto per non seguire un ordine cronologico che mi obbligherebbe ad una maggior precisione dei dettagli, cosa di cui non son mica capace, un saltone indietro nel tempo mi fa arrivare a quel periodo in cui la radio era l’unico modo possibile di “vedere” le partite. Commentate da  Nicolò Carosio, ovvero colui che inventò decine di neologismi poi entrati a pieno titolo nel linguaggio di tutti i giorni, il calcio non sfuggiva di certo alle avanguardie musicali attente a cavalcare le gesta dei campioni di allora. E il Quartetto Cetra non si fece pregare ad interpretare, in quadrifonia vocale: “ oh oh oh oh che centrattacco, oh oh oh oh tu sei un cerbiatto, sei meglio di Levratto ogni tiro va nel sacco, oh oh oh oh che centrattacco!!”

E se poco fa il salto lo abbiamo fatto all’ indietro, ora ne facciamo uno in avanti, cioè a quando la Rita Pavone la mette giù dura sul rapporto di coppia chiedendo al marito/fidanzato “Perchè perchè, la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita …”, rivelando come in quegli anni il calcio fosse un prodotto destinato ai soli maschi.

Ci pensò, qualche anno dopo, il Molleggiato a rendere giustizia al pubblico femminile, allorché con “eravamo in centomila” cavò, dal sacco immenso della sua genialità, un melodyrock in cui raccontava di essere rimasto letteralmente affascinato da una mora (chissà se si trattava di Claudia Mori?) addocchiata da una curva all’altra durante il derby meneghino. Essendo il Cele notoriamente interista, si deduce che lei fosse di conseguenza milanista.

Ma la poesia allo stato puro la confeziona Roberto Vecchioni con Luci a San Siro, inteso più come rione di Milano che come stadio, che compare però sullo sfondo a dipingere, con colori pastello, la nostalgia dell’autore riguardo la sua gioventù e un vecchio amore che il tempo ha portato via con sè, senza tralasciare una poco velata polemica verso quel mondo discografico che insisteva per imporgli testi più in linea con i tempi: “… parli di donne da buon costume, di questo han voglia se non l’ ha capito già … “ E già, “donne da buon costume” … sarà mica perchè, circa un anno prima, De Andrè aveva firmato quel capolavoro che risponde al titolo di “Bocca di rosa”? Mah, chi può dirlo!!

Certo che se la poesia di Vecchioni ha lasciato il segno nella musica d’ autore, Francesco De Gregori, sfiora la perfezione con la struggente La leva calcistica del 68, assegnando a Nino la maglia numero 7 dopo aver superato il provino, ed esortandolo a “… non aver paura di sbagliare un calcio di rigore …”, spingendo sui valori che un uomo, così come un calciatore, deve dimostrare nella vita come sul campo per essere tale, quando, con impareggiabile maestria sottolinea che: “ …non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio dall’altruismo e dalla fantasia …” Semplicemente immenso.

Ben più nazionalpopolare invece il Baglioni che sfrutta il classico coro da stadio per confezionare il suo Alé o o  Alé o o,  come quel 2-1-X con il quale, qualche anno addietro, invogliava a tentare la fortuna giocando la schedina del totocalcio.

E che dire allora di Cesare Cremonini che è entrato in terapia “ … da quando Baggio non gioca più!!”, o cosa pensare dell’ex 883, Max Pezzali, che ci ricorda che “… è la dura legge del gol, fai un gran bel gioco però se non hai difesa gli altri segnano e poi vincono, loro stanno chiusi ma alla prima opportunità, salgon subito e la buttan dentro a noi, la buttan dentro a noi”. E qui si capisce quanto la semplicità nel gioco del calcio sia disarmante, proprio come la superiorità manifestata dai madridisti nè “ … gli anni d’oro del grande Real …”

E dopo queste citazioni leggere, tornando seri, non si può dimenticare gli Stadio per la bellissima Gaetano e Giacinto, scritta per ricordare Scirea e Facchetti. La canzone rievoca le loro storie di persone semplici salite alla ribalta del calcio mondiale. Due grandi campioni che in quanto a discrezione e serietà non sono mai stati secondi a nessuno. Icone di Juve e Inter, ma apprezzati e condivisi da tutti gli appassionati di calcio: “Gaetano e Giacinto sono due tipi che parlano piano, anche adesso, adesso che sono lontano, ma in questo frastuono è rimasta un’ idea, un eco nel vento, Facchetti e Scirea”.

 Ah, dimenticavo il giusto tributo che va riconosciuto a quelli che nel calcio difficilmente vengono illuminati dai riflettori della cronaca, equiparabili ai porta borraccia del ciclismo, ovvero quelli che si fanno un culo così ancor prima che l’arbitro fischi il calcio d’inizio e per tutta la gara mulinano randellate macinando chilometri per inseguire gli avversari come una guardia insegue il malfattore.

Quelli il cui tempo che scorre relega loro “… sempre lì lì nel mezzo finché ce n’ hai stai lì stai sempre lì..”, quelli che non hanno mai il tempo di raccontare la partita ai microfoni delle tv, presi come sono a terminare il loro compito nel segreto degli spogliatoi, imponendo il loro carisma nell’analisi della gara appena terminata.

Quelli che la loro carriera la passano, come diceva appunto Ligabue, “…a recuperar palloni, nato senza i piedi buoni lavorare sui polmoni … una vita da mediano lavorando come Oriali, anni di fatica e botte e vinci caso mai i mondiali …”

E come dimenticare il richiamo casereccio di quella canzone che ha accompagnato il sogno di gloria ai mondiali italiani del 1990, urlo che la Nannini e Bennato hanno potuto lanciare solo dal terzo gradino del podio, inconsapevoli che da lì a qualche anno, alcune inchieste avrebbe messo a nudo lo sperpero illecito dei soldi pubblici stanziati per l’avvenimento.

E infine non poteva mancare un ricordo dovuto ai mondiali messicani del 1970, segnati indelebilmente dall’impresa epica degli azzurri in Italia-Germania, il cui risultato causò più di qualche emergenza cardiaca nei vari pronto soccorso degli ospedali italiani.

Quel 4 a 3 fu il risultato di un’impresa a cui il cantante melodico partenopeo, Fausto Cigliano, volle rendere onore imperituro al ritmo di bossanova, a quella che fu la gloriosa formazione messa in campo da Ferruccio Valcareggi in quella storica partita vinta contro la Germania di Beckenbauer, non dimenticandosi di  evidenziare la famosa staffetta tra Mazzola e Rivera:

“Albertosi Albertosi, Burgnich e Facchetti con Bertini, Rosato e Cera … c’era un gol.

Domenghini e Mazzola, Boninsegna e Rivera in panchina, in panchina … con Zoff…”

Ed è qui che la memoria e il tempo, mio e vostro, a disposizione, si sta esaurendo.

Probabile che abbia dimenticato qualche canzone, qualche cantante importante e qualche testo meritevole di menzione, ma questo è quanto, e se vi basta son contento lo stesso  anche così … perché quando una canzone intercetta il calcio, oltre ad alleggerirlo del peso specifico che grava sulle spalle del gioco più bello del mondo, gli regala una corsa sulla fascia laterale dove gli spazi sono meno affollati, consentendo alla fantasia di entrambi di volare libera.

Nonnopipo 

Novara perchè è la mia città, il Novara calcio perchè è la squadra della mia città, il dialetto perchè se il futuro è una porta il passato è la chiave per aprirla. Forsa Nuara tüta la vita.

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Viva Sanremo, Viva l’Italia!

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Ammetto di non essere mai stato un particolare fruitore di Sanremo, essendo i miei gusti musicali troppo diversi da quelli trasmessi nella kermesse. Devo dire però, come gran parte degli italiani, di aver sempre dato uno sguardo qua e là alla settimana sanremese perché parliamo pur sempre dell’evento mondano più importante dell’anno. Avevo ad esempio seguito con interesse l’edizione di Baglioni che aveva inaugurato un cambio importante a livello di generi musicali, pur anche questi lontanissimi dai miei, ma che dava per lo meno un segno di modernità mai visto prima.

Devo dire che invece le ultime due edizioni mi sono risultate del tutto inguardabili. E questo per il solito genderismo da accatto, non tanto dei poveri protagonisti del Festival che seguono una linea editoriale prestabilita, ma più da parte di un’ opinione pubblica che per 358 giorni l’anno tollera rutti, scoregge, pollai, risse TV, tronisti, ma che in questa settimana è concentratissima per sgamare ogni più piccola defaillance rispetto al politicamente corretto sulle tematiche di genere e a sparare quintali di merda sul malcapitato di turno.

E quindi ci vuole per forza un Achille Lauro conciato come un mix tra la Bertè e il culo di un pavone, con annesso bacio al chitarrista che fa sempre molto trasgressivo. E guai a dire che a livello canoro ha, diciamo così, qualche margine di miglioramento, tipo quelli che ho io per diventare calciatore, perché la sua è una ‘sfida alla mascolinità tossica’ – cit. Lorenzo Tosa, detto anche ‘quello che scrive articoli su internet perché altrimenti dovrebbe trovarsi un lavoro’.

Sia chiaro, tutto ciò nulla ha a che fare con la vera parità di genere, il divario salariale e tutte le altre sacrosante battaglie da condurre e portare a compimento, e su cui peraltro a dispetto di quanto si dice, il nostro Paese e tra quelli che negli ultimi anni stanno più rapidamente riducendo il gap, per fortuna. Ma ci troviamo in un periodo strano. Un periodo in cui si crea una polemica enorme per il fatto che su tre ministri espressione di un partito (non 15, TRE) non c’è neanche una donna, e questo contribuisce probabilmente alle dimissioni del segretario del partito stesso. Ma nessuno che sottolinei che il livello di partecipazione delle donne alla politica in Italia è la metà di quello degli uomini. Però si pretende che dall’imbuto della competizione politica, per magia escano tante donne quanti uomini.

E non si può più neanche dire che una cosa forse riesce un po’ meglio a un maschio che a una femmina, perchè si viene sommersi da quintalate di insulti e accuse di sessismo. Questo succede anche nel calcio, ad esempio quando in un anonimo pomeriggio di fine febbraio viene trasmessa in diretta su Rai 2 una partita di qualificazione ai Campionati Femminili di Euro ‘22, finita 12 (DODICI) a 0 per l’Italia e che ha fatto lo share peggiore di tutte le 7 reti mainstream. Ecco, si può dire che forse il calcio femminile non ha ancora raggiunto un livello di maturazione tecnica e tattica tale da appassionare una fetta significativa di telespettatori senza passare per bigotti difensori della società patriarcale?

Temo di no, in un paese dove la Palombelli, che durante l’anno conduce un pollaio televisivo in cui c’è gente che si produce in scene di isteria recitata perché il fidanzato ha una passione per MILF, espone proprio a Sanremo un monologo appassionato su impegno e ribellione delle donne per conquistare i propri diritti (e poi sposare un segretario di partito, immagino).

Ma va bene così. Finita questa settimana di full immersion, torneremo a parlare in qualche speciale in quarta serata dei dati disastrosi che questa pandemia sta avendo sull’occupazione femminile (quelli sì meriterebbero tutta la nostra attenzione), mentre la Gruber e la Murgia ci ricorderanno una sera sì e una no dell’importanza di abbattere gli stereotipi della virilità dominante nella nostra società.

Jacopo

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Alex Zanardi non esiste

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La vicenda Zanardi è emblematica dello stato comatoso in cui versa il giornalismo, e, come spesso succede essendone specchio, la nostra società. ‘Zanardi non è uno di noi’ titolava ieri il sempre melodrammatico Verdelli, col solito paternalismo verso il popolo che non si merita un eroe del genere. Zanardi, l’uomo senza limiti, che se cade si rialza sempre, per cui nulla è impossibile. E di conseguenza, come per un tacito assioma, senza difetti. Dall’altra parte la massa, noi poveri mortali che possiamo solo venerare e inchinarci a questo esempio fulgido di grandezza.

Prevengo ogni possibilità di equivoco: Zanardi è un grande sportivo, un uomo con una forza d’animo straordinaria che ha saputo rialzarsi e dimostrare che si possono superare le difficoltà più grandi, reinventarsi e primeggiare in un contesto completamente diverso. Un grande atleta che spero con tutto il cuore si riprenderà da questa ennesima botta che la vita gli ha dato. Ma è un brand. Probabilmente anche suo malgrado. Il brand rassicurante dell’uomo che nonostante la vita lo abbia sottoposto a prove difficilissime, ha sempre una parola gentile e educata, che non si arrabbia mai, che vede il buono in tutto. Zanardi semplicemente non esiste. Esiste l’idea costruita dopo il suo primo incidente e che adesso spazza via tutto: organizzatori di eventi ciclistici che ripetono che non c’era alcuna autorizzazione e la prova andava vista come una semplice escursione che non esenta dal rispetto degli obblighi stradali; politici locali che devono giustificare perché c’era un mezzo della Municipale a scortare la comitiva; guidatori di tir con la colpa di non essere riusciti a smaterializzare il mezzo su cui viaggiavano. Tutti malcapitati attori nell’ennesima contrapposizione tra il simbolo senza peccati e il caprio espiatorio in salsa italica.

Il tutto condito dal solito circo: ‘Ecco dove metteva di solito il cellulare Zanardi’, ‘Zanardi aveva le mani sui manubri’. La narrazione della storia del Santo con le sue reliquie che muore e risorge. Io spero con tutto il cuore che Alex non muoia e che invece, sì, risorga, ancora una volta. Ma spero anche che se si risveglierà, e lo farà con tutte le sue facoltà intellettive intatte, potrà ridere di questa ennesima pagina orrenda del buonismo e del pietismo all’italiana. Sono certo che sarebbe il primo a farlo.

Jacopo

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Aequalis aequalem delectat

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Devo ammetterlo. In questa travagliata stagione 2018/2019 che è appena andata in archivio sono stato un fantasma. Sempre meno interessato alle faccende del Novara Calcio, un po’ per noia e un po’ per nausea di come questo sport sia stato ridotto nelle ultime annate. Il mio bisogno di “campo” e di pallone non trovava sfogo, alla continua ricerca di genuinità o forse semplicemente di emozioni. Emozioni umane e sempre meno calcistiche. Non il desiderio di una giocata spettacolare o la voglia di vittoria, vane e vuote se raggiunte per mera matematica di punti. Parlo di quella voglia di potermi rispecchiare in chi corre in un campo verde all’inseguimento di affermazione personale, di bisogno di gioia e condivisione. Di simpatia, nell’accezione più letterale del termine greco da cui deriva il vocabolo. Patire insieme, soffrire insieme e quindi gioire insieme. Ero convinto di non esserne più capace.

Ho iniziato quasi per caso a seguire le attività della società Ticinia Novara, in arte Novara for Special, fino ad averne un settimanale bisogno, esattamente come accadeva per il calcio dei cosiddetti professionisti. E’ stato come reimparare a camminare. O forse a parlare e financo a pensare. Occuparmi di disabilità mi ha costretto a rimettere in discussione tantissimi aspetti del mio sentire che pensavo fermi e saldi nella mia coscienza. Anche armati delle migliori intenzioni e della massima apertura mentale ho scoperto che si è sempre disarmati, impreparati. Il vero motivo non è immediatamente afferrabile. Perchè questo diventa un esercizio quotidiano, faticoso e complicato.

La ricompensa è stata però dolcissima e appagante. In questa stagione Novara for Special, con pochissimi mezzi e ancor meno appoggio (soprattutto istituzionale) ha raggiunto risultati sportivi impensabili ad inizio stagione: primi nella IV e V categoria girone Lombardia, qualificati per la Special Cup su base nazionale al termine della quale siamo risultati terzi assoluti, dietro solo a colossi come Juventus e Insuperabili, due realtà eccezionali che possono allestire quattro allenamenti a settimana e far arrivare da tutta Italia atleti in stile “selezione”. Il risultato sportivo all’inizio mi ha dato la sensazione di aver raggiunto qualcosa di importante. Ma si sa, le stagioni finiscono in fretta e la gloria, se di questo di può parlare, è passeggera ed a volte vana. Mi sono chiesto allora da cosa veniva questo persistente senso di “vittoria” che continuava a frullare dentro di me, come se ci fosse una voce che non avesse alcuna intenzione di tacitarsi.

Lo scorso 16 luglio Novara for Special è stata premiata durante la celebrazione dei 60 anni della serie C, alla presenza del presidente Ghirelli e del presidente della FIFA Gianni Infantino. Un riconoscimento che anche il Novara Calcio ha celebrato con la decisione di apporre il logo di Quarta Categoria (il campionato riservato alle squadre for Special) accompagnata dalla frase “Il calcio è tutta la mia vita”, pronunciata dal capitano di Novara for Special di V categoria Nicola Macchiarulo. Oltre alle sue parole mi rieccheggiavano nella mente anche quelle del capitano della IV categoria Alessandro Crisanti, che dopo la vittoria del campionato Lombardia ha dedicato ai suoi compagni un post su Facebook in grado di resuscitare le emozioni nel più disilluso dei cinici.

Ma non sono i premi e riconoscimenti a fare una vittoria. Sono le emozioni che ti porti dentro, la simpatia infinita per questi ragazzi e tutte le persone con cui ho collaborato al progetto Novara for Special e con cui voglio collaborare il più a lungo possibile. Sono le epifanie e i pensieri che sono germogliati in una lunga stagione che ti fa subito venire voglia di iniziarne un’altra.

Si, io sono un vincente. Lo sono perchè ho imparato ad imparare da questi fantastici ragazzi. Lo sono perchè ho imparato a “riconoscere la diversità come parte del quotidiano”, per usare le parole di Constanza Orbaiz. In un momento storico in cui le diversità diventano oggetto di strumentalizzazione politica e sociale, i ragazzi di Novara for Special mi hanno fatto (e spero che abbiano fatto o che faranno anche a voi) un regalo prezioso: la capacità di vedere un futuro in cui si gioisce insieme.

Io sono un vincente perchè ho capito che il vero “disabile” ero io, incapace di emozionarmi e di riconoscere tutto ciò che di buono mi circondava, dandolo per scontato.

Per i più maliziosi di voi che vorranno vedere in queste mie parole vanagloria o autocelebrazione spiego subito che il motivo che mi ha spinto a scrivere questo articolo non è il bisogno di pavoneggiarsi o di sentirsi “migliore” di altri. Al contrario il mio desiderio è che queste mie parole vi aprano le porte di un mondo che forse vedete ancora da lontano ma che merita di essere assaporato e vissuto da vicino, esattamente come quello del calcio che tanto ci piace. Vedere le persone, gli esseri umani, al di là del loro packaging è quell’esercizio faticoso e complicato che va praticato quotidianamente. Perchè nella storia dell’uomo è facilissimo tornare indietro e subire involuzioni, ritornare barbari. Ed è qualcosa che non deve mai più accadere.

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.

Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia dì Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.

Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.

Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbínek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, – Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui – egli testimonia attraverso queste mie parole.

Brano tratto dal romanzo : “La tregua”, di Primo Levi

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