Non solo calcio
SuperBike 2017 – I primi trent’anni
Published
7 anni faon
By
ilVannu
Il Superbike World Championship quest’anno raggiungerà la 30esima stagione. Iniziata nel 1988 a Donington Park vede il ns. Davide Tardozzi come il primo pilota italiano a salire sul gradino più alto del podio, per poi passare all’era Fogarty, il pilota più vincente della SBK, con 59 vittorie e quattro titoli mondiali a suo nome.
Nel 1996 entra in scena la Suzuki, mentre Honda vincerà il titolo mondiale nella stagione successiva con John Kozinski sulla RC45 e Fogarty vincerà poi nel 1998.
Gli anni 2000 portano nuove stelle: Troy Bayliss e Colin Edwards con gare spettacolari e con grandi battaglie per il campionato.
Oltre 1000 sono i piloti che vi hanno preso parte, solamente 72 hanno vinto una gara, appena 17 sono diventati campioni del mondo.
Il WorldSBK è stato presente in oltre 45 circuiti e continua ad aggiungere piste al suo calendario, anche se alcuni – come Donington Park – sono nel calendario dalla prima edizione. Inoltre ha visitato più di 20 paesi diventando di fatto uno sport globale.
Sono 13 le prove del Mondiale Superbike 2017.
Si è cominciato nel weekend del 24 febbraio a Phillip Island, in Australia, si finirà il 4 novembre sulla pista di Losail, in Qatar.
Due le tappe italiane: Imola il 13/14 maggio e la seconda a Misano il 17/18 giugno.
IL CALENDARIO 2017
26 febbraio – Australia Phillip Island
12 marzo – Thailandia Buri Ram
02 aprile – Spagna Motorland Aragon
30 aprile – Olanda TT Circuit Assen
14 maggio – Italia Autodromo Internazionale Enzo e Dino Ferrari di Imola
28 maggio – Regno Unito Donington Park
18 giugno – San Marino Misano World Circuit Marco Simoncelli
09 luglio – USA Laguna Seca Mazda Raceway
20 agosto – Germania Lausitzring
17 sett. Portogallo Portimao
01 ottobre – Francia Magny Cours
22 ottobre – Spagna Jerez
4 novembre- Qatar Losail
Il campione del mondo in carica è Jonathan Rea (Kawasaki Racing Team) che punta a conquistare il suo terzo titolo mondiale consecutivo.
Uno dei principali rivali di Rea, per il titolo 2017, sarà senza dubbio Chaz Davies (Aruba.it corsa -Ducati), e visto che il pilota inglese ha avuto un finale eccezionale nella passata stagione, spera di iniziare molto bene anche la nuova stagione, altro sfidante molto atteso sarà il promettente britannico Alex Lowes (Pata Yamaha ufficiale WorldSBK Team) ed infine ci si aspetta molto anche dal ns. Melandri.
24 febbraio 2017, Australia – Phillip Island
Gara 1
Gara numero 720 nella storia del Mondiale Superbike, parte benissimo Melandri che si porta subito in testa, seguito da Davies e dalle Kawasaki di Rea e di Sykes, partono alla grande anche le Yamaha ufficiali.
Nel corso del 10° giro è Sykes ad andare davanti, con dietro Lowes, Melandri, Rea e Davies, nel giro successivo, Alex Lowes si porta in testa solo per due giri ed arriva Jonathan Rea che si riporta davanti a tutti.
Nel corso del 15° giro, Marco Melandri cade e si lamenterà platealmente di Lowes reo di averlo danneggiato “non è la prima volta che accade una cosa del genere”.
In ogni caso il primo pilota a passare sotto la bandiera a scacchi, guarda caso, è Jonathan Rea, che proprio come nel 2016 e nel 2015 vince la gara d’apertura del Campionato Superbike.
Ricordiamo che i numeri dicono che c’è una possibilità su due che il vincitore di Gara 1 diventerà poi Campione del Mondo, Chaz Davies termina 2° mentre al terzo posto c’è Tom Sykes, Alex Lowes finisce 4° con Yamaha, precedendo la MV Agusta di Leon Camier, nelle prime 5 classificate ci sono 4 case costruttrici differenti.
Con le nuove regole della Superbike, in Gara 2 la prima fila sarà composta da Lowes, Camier e Forès, seguiti da Torres, Laverty e VD Mark. Jonathan Rea partirà 9°, e sarà preceduto da Chaz Davies (8°) e Tom Sykes (7°).
J. Rea e non solo
26 febbraio 2017, Australia – Phillip Island
Gara 2
Parte la norma salva spettacolo che definisce la griglia di partenza della 2° gara della SBK 2017, Melandri 4° fila, Rea in terza….
Poco cambia, Rea ci mette 5 giri a ritornare davanti a tutti …anche questa gara come la prima vede una attenzione particolare a non consumare le gomme e quindi si gira ad un ritmo “basso”.
Ma questo non serve molto agli inseguitori, Rea chiude in volata ancora una volta davanti a Davies e con un Melandri che ritrova il podio dopo 875 giorni da Magny Cours e 18 mesi di stop dopo il divorzio da Aprilia in MotoGP, per lui 50 podi in 104 gare, non male per un pilota spesso sottovalutato.
Per Rea invece 40° vittoria e non serve aggiungere altro, se non che quest’anno sarà come sempre uno spettacolo.
12 Marzo, Thailandia – Buri Ram
Gara 1
Pole position per Jonathan Rea che non ha avuto rivali in questa prima manche sulla pista tailandese, dominando dal primo all’ultimo giro.
Il nord-irlandese, ha stravinto con sei secondi di distacco sul secondo, Chaz Davies, che dopo un inizio un po’ difficile ha recuperato terreno sul suo compagno di squadra Marco Melandri che è stato stabilmente in terza posizione fino all’ultimo giro, quando Tom Sykes è riuscito a superarlo all’ultima curva, conquistando così il terzo gradino del podio.
12 Marzo, Thailandia – Buri Ram
Gara 2
Il campione del mondo in carica Jonathan Rea domina anche nella seconda manche, nonostante una seconda partenza dovuta alla caduta di Lorenzo Savadori dopo appena quattro giri. Il nord-irlandese è sempre stato il dominatore assoluto anche nei successivi 16 giri in programma. Melandri con la Ducati ha provato a mantenere il passo di Rea, dovendo cedere poi all’ultimo giro la seconda posizione all’altra Kawasaki ufficiale guidata da Tom Sykes. Ai piedi del podio Alex Lowes, in sella alla Yamaha R1.
La Superbike tornerà in pista fra tre settimane sul circuito spagnolo di Aragon.
I primi 10 in classifica dopo le due gare:
1. Jonathan Rea – Kawasaki – 100
2. Chaz Davies – Ducati – 70
3. Tom Sykes – Kawsaki – 62
4. Alex Lowes – Yamaha – 49
5, Marco Melandri – Ducati – 45
6. Xavi Forés – Ducati – 34
7. Jordi Torres – BMW – 29
8. Michael van der Mark – Yamaha – 27
9. Leon Camier – MV Agusta – 27
10. Nicky Hayden – Honda – 21
Pronostici:
Infine divertiamoci con la “bolla” della SBK e quindi, classifica finale:
1° Rea
2° Melandri
3° Davies
Ne riparliamo a novembre.
Gf
Fondatore dei Blog Novara Siamo Noi e Rettilineo Tribuna, Vice Presidente del Coordinamento Cuore Azzurro e fraterno amico di chiunque al mondo consideri lo stadio la sua seconda casa. O addirittura la prima. Editorialista estremista, gattaro.

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Perchè questa Davis significa così tanto
Published
2 giorni faon
28 Novembre 2023By
Jacopo
Non sono mai stato un patito di tennis in termini assoluti, lo ammetto. Ma la Coppa Davis di fine anni 90’, per me nato nell’’82, rappresenta ancora oggi qualcosa di magico. A 15 anni, quando hai deciso che la tua squadra del cuore si chiamerà Novara Calcio e stai per iniziare un calvario di campionati di merda nell’ ultima serie del professionismo che dureranno almeno 6-7 anni, la tentazione di innamorarti nello stesso momento di una nazionale di uno sport così nobile ma rappresentata in Italia sostanzialmente da gente che in quel momento fa fatica a stare nei primi 100 del mondo, può accompagnare solo. E quei week end infiniti di full immersion iniziati il venerdì pomeriggio con il primo singolare e terminati la domenica con l’ultimo, a parte denotare la componente desolantemente scacciafiga del me stesso adolescente, erano circondati da un’aurea di attesa e di adrenalina che difficilmente ho più vissuto, Novara e Nazionale di calcio esclusi.
Era la formula della Coppa Davis con un turno che durava tutto il week-end, al meglio dei cinque e non dei tre come è oggi, sia come set da vincere per aggiudicarsi il punto, sia come match da vincere per passare il turno. Con i big che o non partecipavano o lo facevano spremuti dai tornei, diventavano inaspettatamente competitivi i Pescosolido, i Camporese e i Furlan, tutti discreti top 50 tra inizio e metà anni ‘90 ma ormai in declino, e che invece concentravano molte delle energie su quella vetrina di prestigio, che li portava in un week end a passare da perfetti sconosciuti per 9 italiani su 10 ad avere magari 6 ore di diretta RAI non stop. E questo non alle 2 di notte, ma all’ora di punta. Ne uscivano spesso delle vere e proprie maratone in cui l’italiano di turno faceva vedere i sorci verdi e delle volte faceva l’impresa contro nazionali come gli Stati Uniti, magari in casa loro, quasi sempre perché i migliori degli altri stavano a defaticare da qualche torneo in giro per il mondo. Ma ad uno come me, cresciuto a pane e alti valori etici e morali trasmessi dalla massiccia visione ripetuta di tutte le serie di Ken il Guerriero, tutto questo non importava. Vedevo solo un piccolo italiano, accompagnato dalla voce in perenne affanno respiratorio di Bisteccone Galeazzi, che teneva testa a giganti biondi che tiravano bombe a mano da fondocampo. Ero lì con loro, a spingere un dritto lungolinea di Sanguinetti o una volée del grande Diego Nargiso che faceva un paio di doppi all’anno davanti a qualche milione di spettatori e poi probabilmente tornava ad insegnare ai bambini del tennis club di Napoli.
Purtroppo, finito quel triennio d’oro, culminato con la finale del ’98 e con quel tendine della spalla di Gaudenzi contro Norman dopo 6 ore di poema epico in diretta TV, che ogni volta che lo rivedo è come se si fosse rotto a me, successe l’inevitabile. Con il ritiro di quella generazione di buoni elementi e senza ricambi generazionali, iniziò un periodo buio, culminato con la retrocessione prima in B e poi addirittura in C, e anche io mi sono progressivamente disinteressato dei destini del tennis italiano. Sì, ultimamente mi capitava di sentire ogni tanto di quel Fognini che smattava, o di quel Berrettini che aveva avuto un netto calo fisico casualmente dopo che aveva iniziato a bombarsi la Satta, ma poco di più. E c’è stata un’intera generazione di Potito Starace, di Seppi, di Bolelli, che onestamente non ho mai avuto idea neanche di che faccia avessero.
Ammetto quindi di essere spudoratamente salito sul carro del sinnerismo, specie dalle ATP Finals in poi, anche se questo ragazzo già da prima mi aveva dato l’impressione di avere qualcosa di diverso. È un predestinato, e infatti c’è da scommettere che la cloaca maxima del giornalismo sportivo italiano farà il possibile, dopo averlo esaltato con la peggiore melassa finto patriottica che tiriamo fuori in questi casi, per infilarsi nella prima piccola crepa e affossarlo. È sempre stato il passatempo preferito della carta da culo sportiva con chiunque dimostrasse di essere un fuoriclasse senza stare alle regole non scritte dello show business, ossia fare notizia, e un assaggio lo abbiamo già avuto con i paginoni vergognosi per la non risposta alla convocazione al turno precedente di Davis. In più Sinner ha il torto enorme di fare solo quello per cui è pagato, ossia giocare a tennis, e di farlo in modo così poco da ‘personaggio’. Non sbraita, non aizza il pubblico, non protesta, non spacca racchette, non fa il buffone. Nelle interviste post partita ha sempre una parola per l’avversario che spesso ha appena demolito tecnicamente, non sconfina in campi che non sono i suoi per fare hype, tipo esprimendosi a slogan acefali sui temi internazionali senza averne le minime competenze ma solo perché è la posizione dominante, o colpevolizzandosi per avere il cazzo come hanno fatto tanti suoi colleghi sportivi e non in queste ultime settimane. È solo Jannik Sinner, tennista italiano, che ha fatto tornare indietro me e tanti altri di 25 anni, riaccendendo sensazioni ed emozioni che pensavamo di aver scordato e vestendole di un finale diverso. E anche solo per questo motivo io personalmente gli sarò per sempre grato.
Jacopo

Ammetto di non essere mai stato un particolare fruitore di Sanremo, essendo i miei gusti musicali troppo diversi da quelli trasmessi nella kermesse. Devo dire però, come gran parte degli italiani, di aver sempre dato uno sguardo qua e là alla settimana sanremese perché parliamo pur sempre dell’evento mondano più importante dell’anno. Avevo ad esempio seguito con interesse l’edizione di Baglioni che aveva inaugurato un cambio importante a livello di generi musicali, pur anche questi lontanissimi dai miei, ma che dava per lo meno un segno di modernità mai visto prima.
Devo dire che invece le ultime due edizioni mi sono risultate del tutto inguardabili. E questo per il solito genderismo da accatto, non tanto dei poveri protagonisti del Festival che seguono una linea editoriale prestabilita, ma più da parte di un’ opinione pubblica che per 358 giorni l’anno tollera rutti, scoregge, pollai, risse TV, tronisti, ma che in questa settimana è concentratissima per sgamare ogni più piccola defaillance rispetto al politicamente corretto sulle tematiche di genere e a sparare quintali di merda sul malcapitato di turno.
E quindi ci vuole per forza un Achille Lauro conciato come un mix tra la Bertè e il culo di un pavone, con annesso bacio al chitarrista che fa sempre molto trasgressivo. E guai a dire che a livello canoro ha, diciamo così, qualche margine di miglioramento, tipo quelli che ho io per diventare calciatore, perché la sua è una ‘sfida alla mascolinità tossica’ – cit. Lorenzo Tosa, detto anche ‘quello che scrive articoli su internet perché altrimenti dovrebbe trovarsi un lavoro’.
Sia chiaro, tutto ciò nulla ha a che fare con la vera parità di genere, il divario salariale e tutte le altre sacrosante battaglie da condurre e portare a compimento, e su cui peraltro a dispetto di quanto si dice, il nostro Paese e tra quelli che negli ultimi anni stanno più rapidamente riducendo il gap, per fortuna. Ma ci troviamo in un periodo strano. Un periodo in cui si crea una polemica enorme per il fatto che su tre ministri espressione di un partito (non 15, TRE) non c’è neanche una donna, e questo contribuisce probabilmente alle dimissioni del segretario del partito stesso. Ma nessuno che sottolinei che il livello di partecipazione delle donne alla politica in Italia è la metà di quello degli uomini. Però si pretende che dall’imbuto della competizione politica, per magia escano tante donne quanti uomini.
E non si può più neanche dire che una cosa forse riesce un po’ meglio a un maschio che a una femmina, perchè si viene sommersi da quintalate di insulti e accuse di sessismo. Questo succede anche nel calcio, ad esempio quando in un anonimo pomeriggio di fine febbraio viene trasmessa in diretta su Rai 2 una partita di qualificazione ai Campionati Femminili di Euro ‘22, finita 12 (DODICI) a 0 per l’Italia e che ha fatto lo share peggiore di tutte le 7 reti mainstream. Ecco, si può dire che forse il calcio femminile non ha ancora raggiunto un livello di maturazione tecnica e tattica tale da appassionare una fetta significativa di telespettatori senza passare per bigotti difensori della società patriarcale?
Temo di no, in un paese dove la Palombelli, che durante l’anno conduce un pollaio televisivo in cui c’è gente che si produce in scene di isteria recitata perché il fidanzato ha una passione per MILF, espone proprio a Sanremo un monologo appassionato su impegno e ribellione delle donne per conquistare i propri diritti (e poi sposare un segretario di partito, immagino).
Ma va bene così. Finita questa settimana di full immersion, torneremo a parlare in qualche speciale in quarta serata dei dati disastrosi che questa pandemia sta avendo sull’occupazione femminile (quelli sì meriterebbero tutta la nostra attenzione), mentre la Gruber e la Murgia ci ricorderanno una sera sì e una no dell’importanza di abbattere gli stereotipi della virilità dominante nella nostra società.
Jacopo

La vicenda Zanardi è emblematica dello stato comatoso in cui versa il giornalismo, e, come spesso succede essendone specchio, la nostra società. ‘Zanardi non è uno di noi’ titolava ieri il sempre melodrammatico Verdelli, col solito paternalismo verso il popolo che non si merita un eroe del genere. Zanardi, l’uomo senza limiti, che se cade si rialza sempre, per cui nulla è impossibile. E di conseguenza, come per un tacito assioma, senza difetti. Dall’altra parte la massa, noi poveri mortali che possiamo solo venerare e inchinarci a questo esempio fulgido di grandezza.
Prevengo ogni possibilità di equivoco: Zanardi è un grande sportivo, un uomo con una forza d’animo straordinaria che ha saputo rialzarsi e dimostrare che si possono superare le difficoltà più grandi, reinventarsi e primeggiare in un contesto completamente diverso. Un grande atleta che spero con tutto il cuore si riprenderà da questa ennesima botta che la vita gli ha dato. Ma è un brand. Probabilmente anche suo malgrado. Il brand rassicurante dell’uomo che nonostante la vita lo abbia sottoposto a prove difficilissime, ha sempre una parola gentile e educata, che non si arrabbia mai, che vede il buono in tutto. Zanardi semplicemente non esiste. Esiste l’idea costruita dopo il suo primo incidente e che adesso spazza via tutto: organizzatori di eventi ciclistici che ripetono che non c’era alcuna autorizzazione e la prova andava vista come una semplice escursione che non esenta dal rispetto degli obblighi stradali; politici locali che devono giustificare perché c’era un mezzo della Municipale a scortare la comitiva; guidatori di tir con la colpa di non essere riusciti a smaterializzare il mezzo su cui viaggiavano. Tutti malcapitati attori nell’ennesima contrapposizione tra il simbolo senza peccati e il caprio espiatorio in salsa italica.
Il tutto condito dal solito circo: ‘Ecco dove metteva di solito il cellulare Zanardi’, ‘Zanardi aveva le mani sui manubri’. La narrazione della storia del Santo con le sue reliquie che muore e risorge. Io spero con tutto il cuore che Alex non muoia e che invece, sì, risorga, ancora una volta. Ma spero anche che se si risveglierà, e lo farà con tutte le sue facoltà intellettive intatte, potrà ridere di questa ennesima pagina orrenda del buonismo e del pietismo all’italiana. Sono certo che sarebbe il primo a farlo.
Jacopo
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