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Riprendiamoci il nostro spazio

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Quando ascolto i deliri di Massimo De Salvo (che da oggi simpaticamente chiamerò solo MDS) , soprattutto se  vomitati di getto a causa di un evidente  stato  di hangover post sbronza per abuso di un micidiale cocktail di torti arbitrali ed inculata al 93′, so in partenza che posso assistere ad uno show verbale i cui contenuti possono variare da  chicche di inestimabile valore filosofico ad altre che potrebbero essere inserite su wikipedia alla voce “grandi puttanate dell’ultimo secolo”, perchè quando il cervello perde di lucidità ti porta  a dire tutto ciò che in condizioni normali non diresti mai. Avete mai ascoltato seriamente ragionare un ubriaco oppure uno molto ma molto incazzato? Ecco, se non lo avete mai fatto svestitevi dei panni di quelli un pò  snob che evitano certe persone e provate, con un minimo di giudizio critico, ad andare oltre le apparenze e ad ascoltarli. E’ possibile che vi troviate davanti ad una persona che, paradossalmente, è più lucida e presente di quando è in condizioni normali.

Tra le tante cose dette post Novara Pisa, un concetto che ha espresso (forse in maniera non chiarissima) e che ha avuto poi la possibilità di ribadirmi de visus nell’incontro con lui che ho avuto insieme agli amici del Coordinamento, è stato quello di avercela con chi, a sua detta, svolge il mestiere di raccontare quotidianamente le vicende del Novara Calcio sui giornali e sui portali internet e di farlo, sempre a sua detta, in maniera non coerente con la realtà dei fatti che chi scrive vive in prima persona. In sintesi, se l’autore di un articolo si trova nel dubbio tra il dover riportare un fatto positivo ed uno negativo, non ha dubbi nell’evidenziare quello negativo, a differenza, ovviamente a sua detta, di ciò che avviene nelle altre piazze.

Ho provato a svestirmi pure io dei panni di quello un pò snob e dubbioso mentre lo ascoltavo, ma nonostante questo non ce l’ho fatta a dargli completamente ragione. Sicuramente il tema informazione sul  Novara Calcio è una materia particolare, delegata per anni ad una via di mezzo tra l’anonimato delle grandi testate ed i racconti di giornalisti tifosi su altre testate cittadine, ma onestamente non ho mai avuto l’impressione di una stampa clamorosamente contro o schifosamente accondiscendente. Chi scrive di Novara è bene o male legato alla città, e quindi ha nel suo DNA quell’essere un pò freddo, ma da lì a dire che racconti il male ce ne vuole. Poi succede che oggi, Martedì 14 Febbraio 2017, apro come ogni mattina la Stampa, peraltro in edizioni straordinarie perchè si trova nella settimana dei suoi festeggiamenti per il 150esimo anno, e vedo un  inserto dedicato a Novara (probabilmente ogni edizione locale oggi ne aveva uno analogo dedicato alla propria) con in copertina il bellissimo disegno che ho riportato nell’immagine in evidenza di questo  articolo. Cosa ci vedete voi? Io vedo un disegno con dipinto tutto ciò che può descrivere la mia città, e quindi la  Cupola, la Basilica del Duomo, un aereo che rappresenta Malpensa, le industrie chimiche col nuovo polo, le imprese, la cucina e poi?…. la pallavolo femminile! Il primo quotidiano della città, nell’inserto dedicato alla città in occasione dei festeggiamenti per la sua storica ricorrenza “decide” di sintetizzare con un disegno la città mettendo al centro la pallavolo femminile e relegando poi il calcio in terza pagina dello stesso inserto.

Chiariamolo subito: io non ce l’ho con  la Igor Volley, che peraltro ogni tanto vado pure a vedere. E nemmeno sono così integralista e miope da negarne l’attuale importanza che riveste nel panorama sportivo della nostra provincia. Ma contesto il fatto di erigerla ad emblema dello sport novarese, visto che la sua tradizione (a meno che si parli della Agil Volley Trecate) è datata si e no l’altro ieri. Ho qualche riserva in più del tutto personale ma solo a livello di pelle su patron Leonardi, che da oggi in questa sede chiamerò simpaticamente signor zeru tituli (si vabbè siamo seri la coppetta italia ce la mettiamo lì e la usiamo come porta ombrelli) che si è costruito un giocattolino foraggiato, legittimamente per carità, con ingenti investimenti suoi e della “Novara bene”, che in massa la domenica pomeriggio popola il Pala Igor (spesso facendo numeri superiori del Piola) e si scambia saluti grondanti di bava e strette di mano a suon di aperitivi e pizzette. Però, evidentemente, se questo giocattolino si guadagna il diritto di comparire in primo piano su un dipinto rappresentante la città, allora la strategia è vincente.

Come la mettiamo ora con l’hangover di MDS? La mettiamo che forse ho nuovamente trovato conferma del fatto che solo da ubriachi o incazzati si possa dire la verità oltretutto prendendoci. Mettiamoci nei suoi panni una volta, bravo o pirla che sia, questo rampante giovane un pò brianzolo e un pò siculo un giorno si compra il  Novara Calcio, ci mette negli anni un pacco di milioni, porta la squadra addirittura in serie A, bene o male la mantiene in B ridandogli importanza nel panorama calcistico italiano, poi arriva uno signor zeru tituli del caso, che peraltro era (è) uno sponsor ma col vantaggio di essere un novarese inserito bene nel tessuto sociale della società, che crea sul territorio un concorrente col vantaggio di poter offrire un prodotto che non prevede la possibilità di prendere freddo e bagnarsi, di avere le menate della violenza dei tifosi, di essere a basso costo e di offrire due tette e un bel culetto in grandi quantità da vedere, che sicuramente sono meglio dei pettorali di Casarini  o di Sansone, e il gioco è fatto: tutti esperti di Volley e qualche sponsor che passa al di là della barricata. Con l’avallo  del primo quotidiano in ordine di importanza della città che gli attribuisce la stessa (se non superiore) attenzione mediatica. Gli possono girare i coglioni a MDS o no?

La mia onestà intellettuale mi porta a dire che MDS qualcosa dal signor zeru titoli dovrebbe pure impararla: parlo dell’arte di comprarsi il consenso. Di vendersi meglio, di risultare simpatico, di attirare gente magari attribuendogli quell’importanza che anche se non ha fondamento di esistere gli viene comunque riconosciuta, e diventa automaticamente reale e credibile. Al  netto di chi la Igor ce l’ha nel cuore, ovvero il Baluardo e un ristretto numero di altri tifosi, quando vado al Pala Igor vedo gente che prima di guardare la partita si cura di chi ha intorno, e se chi ha intorno non si è accorto della sua presenza, fa di tutto per farsi vedere. Perchè andare a vedere la pallavolo la domenica pomeriggio è ormai un pò come andare a messa al Duomo alle 11 della mattina, ci si va perchè la Novara bene va lì, mica per pregare la Madonna. Ecco, il signor zeru titoli fa ne più ne meno la stessa cosa che fa MDS, con la differenza che la fa meglio perche sa scegliersi le persone. MDS invece regala fior di abbonamenti e biglietti, ma a lui non stringono la mano, gli danno solo del coglione. Quando gli va bene.

La  Novara calcistica credo debba ora compiere un grossissimo sforzo per riconquistarsi quel ruolo che gli compete e, concedetemelo, che gli appartiene di diritto. E per farlo ha bisogno di uno sforzo di tutti, soprattutto di un MDS che deve necessariamente capire che chi è disposto a  stargli a fianco e combattere con lui, sia per interesse  che per credo, debba essere considerato una risorsa e non solo un problema da gestire. Serve che MDS dialoghi con questa componente ascoltandola e attribuendole quel giusto riconoscimento ed importanza, ai suoi occhi reale o finta che sia poco importa, ma che la mantiene viva ove si dovesse sentire spenta. Serve che MDS diventi più paraculo, o se preferite più zoccola, in modo che aumenti quell’entusiasmo ed eccitazione collettiva che sicuramente poi verrà raccolta da chi lavora per i media. L’evento del week end deve tornare ad essere Latina Novara, e non Novara Conegliano di volley, che è sì l’evento del week end pallavolistico che speriamo tutti di vincere, ma se lo facciamo diventare l’appuntamento per la città allora siamo tutti noi che abbiamo fallito. Insomma, da tifoso integralista calcistico, vorrei che MDS mi aiutasse ad incazzarmi con chi scrive “male” del Novara e non portarmi a dire “tutti i torti non hanno” quando dipingono solo il male. Non esiste solo il calcio, e  l’Hockey ne è un esempio di cosa  voglia dire la parola tradizione, ma siamo italiani in una Nazione e soprattutto città che è stata  (ed è) prevalentemente calciocentrica.

Riprendiamoci i nostri spazi, parliamo tutti noi per primi del Novara Calcio e facciamolo da tifosi 365 giorni l’anno. Possibilmente bene. il Novara siamo noi, tutto il resto è noia.

Fondatore dei Blog Novara Siamo Noi e Rettilineo Tribuna, Vice Presidente del Coordinamento Cuore Azzurro e fraterno amico di chiunque al mondo consideri lo stadio la sua seconda casa. O addirittura la prima. Editorialista estremista, gattaro.

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Viva Sanremo, Viva l’Italia!

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Ammetto di non essere mai stato un particolare fruitore di Sanremo, essendo i miei gusti musicali troppo diversi da quelli trasmessi nella kermesse. Devo dire però, come gran parte degli italiani, di aver sempre dato uno sguardo qua e là alla settimana sanremese perché parliamo pur sempre dell’evento mondano più importante dell’anno. Avevo ad esempio seguito con interesse l’edizione di Baglioni che aveva inaugurato un cambio importante a livello di generi musicali, pur anche questi lontanissimi dai miei, ma che dava per lo meno un segno di modernità mai visto prima.

Devo dire che invece le ultime due edizioni mi sono risultate del tutto inguardabili. E questo per il solito genderismo da accatto, non tanto dei poveri protagonisti del Festival che seguono una linea editoriale prestabilita, ma più da parte di un’ opinione pubblica che per 358 giorni l’anno tollera rutti, scoregge, pollai, risse TV, tronisti, ma che in questa settimana è concentratissima per sgamare ogni più piccola defaillance rispetto al politicamente corretto sulle tematiche di genere e a sparare quintali di merda sul malcapitato di turno.

E quindi ci vuole per forza un Achille Lauro conciato come un mix tra la Bertè e il culo di un pavone, con annesso bacio al chitarrista che fa sempre molto trasgressivo. E guai a dire che a livello canoro ha, diciamo così, qualche margine di miglioramento, tipo quelli che ho io per diventare calciatore, perché la sua è una ‘sfida alla mascolinità tossica’ – cit. Lorenzo Tosa, detto anche ‘quello che scrive articoli su internet perché altrimenti dovrebbe trovarsi un lavoro’.

Sia chiaro, tutto ciò nulla ha a che fare con la vera parità di genere, il divario salariale e tutte le altre sacrosante battaglie da condurre e portare a compimento, e su cui peraltro a dispetto di quanto si dice, il nostro Paese e tra quelli che negli ultimi anni stanno più rapidamente riducendo il gap, per fortuna. Ma ci troviamo in un periodo strano. Un periodo in cui si crea una polemica enorme per il fatto che su tre ministri espressione di un partito (non 15, TRE) non c’è neanche una donna, e questo contribuisce probabilmente alle dimissioni del segretario del partito stesso. Ma nessuno che sottolinei che il livello di partecipazione delle donne alla politica in Italia è la metà di quello degli uomini. Però si pretende che dall’imbuto della competizione politica, per magia escano tante donne quanti uomini.

E non si può più neanche dire che una cosa forse riesce un po’ meglio a un maschio che a una femmina, perchè si viene sommersi da quintalate di insulti e accuse di sessismo. Questo succede anche nel calcio, ad esempio quando in un anonimo pomeriggio di fine febbraio viene trasmessa in diretta su Rai 2 una partita di qualificazione ai Campionati Femminili di Euro ‘22, finita 12 (DODICI) a 0 per l’Italia e che ha fatto lo share peggiore di tutte le 7 reti mainstream. Ecco, si può dire che forse il calcio femminile non ha ancora raggiunto un livello di maturazione tecnica e tattica tale da appassionare una fetta significativa di telespettatori senza passare per bigotti difensori della società patriarcale?

Temo di no, in un paese dove la Palombelli, che durante l’anno conduce un pollaio televisivo in cui c’è gente che si produce in scene di isteria recitata perché il fidanzato ha una passione per MILF, espone proprio a Sanremo un monologo appassionato su impegno e ribellione delle donne per conquistare i propri diritti (e poi sposare un segretario di partito, immagino).

Ma va bene così. Finita questa settimana di full immersion, torneremo a parlare in qualche speciale in quarta serata dei dati disastrosi che questa pandemia sta avendo sull’occupazione femminile (quelli sì meriterebbero tutta la nostra attenzione), mentre la Gruber e la Murgia ci ricorderanno una sera sì e una no dell’importanza di abbattere gli stereotipi della virilità dominante nella nostra società.

Jacopo

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Alex Zanardi non esiste

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La vicenda Zanardi è emblematica dello stato comatoso in cui versa il giornalismo, e, come spesso succede essendone specchio, la nostra società. ‘Zanardi non è uno di noi’ titolava ieri il sempre melodrammatico Verdelli, col solito paternalismo verso il popolo che non si merita un eroe del genere. Zanardi, l’uomo senza limiti, che se cade si rialza sempre, per cui nulla è impossibile. E di conseguenza, come per un tacito assioma, senza difetti. Dall’altra parte la massa, noi poveri mortali che possiamo solo venerare e inchinarci a questo esempio fulgido di grandezza.

Prevengo ogni possibilità di equivoco: Zanardi è un grande sportivo, un uomo con una forza d’animo straordinaria che ha saputo rialzarsi e dimostrare che si possono superare le difficoltà più grandi, reinventarsi e primeggiare in un contesto completamente diverso. Un grande atleta che spero con tutto il cuore si riprenderà da questa ennesima botta che la vita gli ha dato. Ma è un brand. Probabilmente anche suo malgrado. Il brand rassicurante dell’uomo che nonostante la vita lo abbia sottoposto a prove difficilissime, ha sempre una parola gentile e educata, che non si arrabbia mai, che vede il buono in tutto. Zanardi semplicemente non esiste. Esiste l’idea costruita dopo il suo primo incidente e che adesso spazza via tutto: organizzatori di eventi ciclistici che ripetono che non c’era alcuna autorizzazione e la prova andava vista come una semplice escursione che non esenta dal rispetto degli obblighi stradali; politici locali che devono giustificare perché c’era un mezzo della Municipale a scortare la comitiva; guidatori di tir con la colpa di non essere riusciti a smaterializzare il mezzo su cui viaggiavano. Tutti malcapitati attori nell’ennesima contrapposizione tra il simbolo senza peccati e il caprio espiatorio in salsa italica.

Il tutto condito dal solito circo: ‘Ecco dove metteva di solito il cellulare Zanardi’, ‘Zanardi aveva le mani sui manubri’. La narrazione della storia del Santo con le sue reliquie che muore e risorge. Io spero con tutto il cuore che Alex non muoia e che invece, sì, risorga, ancora una volta. Ma spero anche che se si risveglierà, e lo farà con tutte le sue facoltà intellettive intatte, potrà ridere di questa ennesima pagina orrenda del buonismo e del pietismo all’italiana. Sono certo che sarebbe il primo a farlo.

Jacopo

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Aequalis aequalem delectat

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Devo ammetterlo. In questa travagliata stagione 2018/2019 che è appena andata in archivio sono stato un fantasma. Sempre meno interessato alle faccende del Novara Calcio, un po’ per noia e un po’ per nausea di come questo sport sia stato ridotto nelle ultime annate. Il mio bisogno di “campo” e di pallone non trovava sfogo, alla continua ricerca di genuinità o forse semplicemente di emozioni. Emozioni umane e sempre meno calcistiche. Non il desiderio di una giocata spettacolare o la voglia di vittoria, vane e vuote se raggiunte per mera matematica di punti. Parlo di quella voglia di potermi rispecchiare in chi corre in un campo verde all’inseguimento di affermazione personale, di bisogno di gioia e condivisione. Di simpatia, nell’accezione più letterale del termine greco da cui deriva il vocabolo. Patire insieme, soffrire insieme e quindi gioire insieme. Ero convinto di non esserne più capace.

Ho iniziato quasi per caso a seguire le attività della società Ticinia Novara, in arte Novara for Special, fino ad averne un settimanale bisogno, esattamente come accadeva per il calcio dei cosiddetti professionisti. E’ stato come reimparare a camminare. O forse a parlare e financo a pensare. Occuparmi di disabilità mi ha costretto a rimettere in discussione tantissimi aspetti del mio sentire che pensavo fermi e saldi nella mia coscienza. Anche armati delle migliori intenzioni e della massima apertura mentale ho scoperto che si è sempre disarmati, impreparati. Il vero motivo non è immediatamente afferrabile. Perchè questo diventa un esercizio quotidiano, faticoso e complicato.

La ricompensa è stata però dolcissima e appagante. In questa stagione Novara for Special, con pochissimi mezzi e ancor meno appoggio (soprattutto istituzionale) ha raggiunto risultati sportivi impensabili ad inizio stagione: primi nella IV e V categoria girone Lombardia, qualificati per la Special Cup su base nazionale al termine della quale siamo risultati terzi assoluti, dietro solo a colossi come Juventus e Insuperabili, due realtà eccezionali che possono allestire quattro allenamenti a settimana e far arrivare da tutta Italia atleti in stile “selezione”. Il risultato sportivo all’inizio mi ha dato la sensazione di aver raggiunto qualcosa di importante. Ma si sa, le stagioni finiscono in fretta e la gloria, se di questo di può parlare, è passeggera ed a volte vana. Mi sono chiesto allora da cosa veniva questo persistente senso di “vittoria” che continuava a frullare dentro di me, come se ci fosse una voce che non avesse alcuna intenzione di tacitarsi.

Lo scorso 16 luglio Novara for Special è stata premiata durante la celebrazione dei 60 anni della serie C, alla presenza del presidente Ghirelli e del presidente della FIFA Gianni Infantino. Un riconoscimento che anche il Novara Calcio ha celebrato con la decisione di apporre il logo di Quarta Categoria (il campionato riservato alle squadre for Special) accompagnata dalla frase “Il calcio è tutta la mia vita”, pronunciata dal capitano di Novara for Special di V categoria Nicola Macchiarulo. Oltre alle sue parole mi rieccheggiavano nella mente anche quelle del capitano della IV categoria Alessandro Crisanti, che dopo la vittoria del campionato Lombardia ha dedicato ai suoi compagni un post su Facebook in grado di resuscitare le emozioni nel più disilluso dei cinici.

Ma non sono i premi e riconoscimenti a fare una vittoria. Sono le emozioni che ti porti dentro, la simpatia infinita per questi ragazzi e tutte le persone con cui ho collaborato al progetto Novara for Special e con cui voglio collaborare il più a lungo possibile. Sono le epifanie e i pensieri che sono germogliati in una lunga stagione che ti fa subito venire voglia di iniziarne un’altra.

Si, io sono un vincente. Lo sono perchè ho imparato ad imparare da questi fantastici ragazzi. Lo sono perchè ho imparato a “riconoscere la diversità come parte del quotidiano”, per usare le parole di Constanza Orbaiz. In un momento storico in cui le diversità diventano oggetto di strumentalizzazione politica e sociale, i ragazzi di Novara for Special mi hanno fatto (e spero che abbiano fatto o che faranno anche a voi) un regalo prezioso: la capacità di vedere un futuro in cui si gioisce insieme.

Io sono un vincente perchè ho capito che il vero “disabile” ero io, incapace di emozionarmi e di riconoscere tutto ciò che di buono mi circondava, dandolo per scontato.

Per i più maliziosi di voi che vorranno vedere in queste mie parole vanagloria o autocelebrazione spiego subito che il motivo che mi ha spinto a scrivere questo articolo non è il bisogno di pavoneggiarsi o di sentirsi “migliore” di altri. Al contrario il mio desiderio è che queste mie parole vi aprano le porte di un mondo che forse vedete ancora da lontano ma che merita di essere assaporato e vissuto da vicino, esattamente come quello del calcio che tanto ci piace. Vedere le persone, gli esseri umani, al di là del loro packaging è quell’esercizio faticoso e complicato che va praticato quotidianamente. Perchè nella storia dell’uomo è facilissimo tornare indietro e subire involuzioni, ritornare barbari. Ed è qualcosa che non deve mai più accadere.

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.

Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia dì Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.

Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.

Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbínek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, – Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui – egli testimonia attraverso queste mie parole.

Brano tratto dal romanzo : “La tregua”, di Primo Levi

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